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Last Night Bava Saved My Movie: la recensione di Last Night in Soho

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Edgar Wright ha ribadito più volte nelle interviste che lui non vorrebbe che tu leggessi questa recensione prima di andare a vedere il suo film. Secondo me un po’ ha ragione, eh?

La scorsa estate ho letto un bel saggio dal titolo Odio il Cinema Italiano: 7 Ragioni per Sostenerlo con Successo in Ogni Conversazione di tal Gabriele Niola che non so chi sia boh ma che vuoi da me. Ve lo consiglio: lo leggete in poche ore ed è pieno di spunti interessanti. Uno dei motivi per cui è cosa buona e giusta odiare il cinema italiano, per la precisione il terzo, è :”Perché è nemico del presente e amico del passato”. Nei film italiani tutto ciò che è nuovo, moderno, tecnologico è Malo. Siamo fatti così, noi fieri italiani: era tutto più bello un tempo e adesso questi freddi mezzi “che ci dividono invece di unirci” non ci aiutano per niente. Bisognerebbe gettare il cellulare in mare e andare a vivere in un vecchio paesino di provincia del Meridione, dove tutto non procede coi ritmi serrati della città e tutto è più vero: le amicizie, i valori, le femmine, la vita. Dice il Niola: “L’ultima speranza contro il male della modernità, il sogno più sfrenato, è tornare al tempo mitico in cui tutto era perfetto: quello mai esistito, quello dei ricordi”. Questo potrebbe essere un buon punto di partenza per parlare dell’ultimo film del nostro amico Edgar Wright, Last Night in Soho. Sigla!

Eloise, detta Ellie (l’ottima Thomasin Mckenzie, l’Anne Frank di JoJo Rabbit) è una ragazzina che vive in Cornovaglia. La mamma è morta suicida, poverina, era un po’ andata di testa, è quindi “ciao ciao” alle luci della Città, a Londra, a “Downtown” ed è andata a vivere in campagna con la nonna, che per inciso è Rita Tushingam, protagonista tra le altre cose del film manifesto della Swinging London The Knack… and How To Get It del beatlesiano Richard Lester. Ed è proprio quello il tempo mitico in cui tutto era perfetto in cui vorrebbe vivere Ellie. In un totale rifiuto della realtà e della modernità, ascolta quella musica, ha quei poster appesi alle pareti, si veste in quel modo… Anzi, talmente vorrebbe vestirsi in quel modo che Ellie, una volta diventata grandicella, parte per Londra col sogno di diventare una stilista. Per fare dei vestitini che, come sottolinea sarcastica la sua compagna di classe Jocasta, una che invece ha abbracciato in pieno il futuro e vive nel suo tempo, “wow… avranno forse un taglio anni ’60?”.

Thomasin arriva a Londra e comincia a fare la splendida mentre Terence si annoia.

Una volta a Londra, anche se un tassista un po’ maniaco la rassicura che sotto sotto la City è sempre la City, Ellie è delusa: non riesce a riconoscere quell’immagine perfetta che si era costruita in testa. Che fine ha fatto lo Swinging? Lei vorrebbe gettare il cellulare nel Tamigi per andare a bere un Vesper al Café de Paris, indossando un elegantissimo vestitino alla Twiggy, toh, al massimo andare al Regency a vedere Thunderball, che è appena uscito. Invece si trova costretta ad accompagnare i suoi compagni della scuola di moda, in tuta, in club dove butta il grime e la gente pippa in bagno. Stanca, affitta una stanza a casa di una vecchia signora, che incidentalmente è Diana Rigg, cioè la Emma Peel dei primi Avengers. Un buco, nulla di che, ma è a Soho, dove forse un po’ di quella magia è rimasta. E una sera, dopo aver messo sul piatto un 45 giri di Cilla Black, Ellie si addormenta… e succede qualcosa di incredibile.

Viaggi nel Tempoooooo

Ellie viaggia nel tempo: si addormenta nel presente e apre gli occhi nel suo mondo dei sogni, nel 1965. È lei, ma non è più lei: è entrata nel corpo di Sandy, il patrimonio Unesco Anya Taylor-Joy, una ragazza bellissima, con un taglio di capelli a la Brigitte Bardot, con un vestitino rosa evidentemente fatto in casa ma pazzesco, che entra al Café de Paris, decisa a diventare la prossima starlette. In men che non si dica attira l’attenzione del Teddy Boy del locale, uno con la faccia di Matt Smith, per poi fuggire nella notte di Londra a scambiarsi baci appassionati… Ellie si sveglia e, come succede nei film in cui c’è il mondo vero e il mondo dei sogni, scopre di avere lei un succhiotto sul collo! Cioè, Matt Smith l’ha fatto a Anya il succhiottone, ma i segni ce li ha Ellie! SDRAAAAAAAAAAM!

Tienimi la mano figliolo, eccetera eccetera

Ellie però è contentissima: ha finalmente trovato il suo mondo idealizzato. Fino a quel momento aveva sempre e solo sognato di poter vivere nella Swinging London ma adesso ci può entrare, proprio grazie ai sogni/viaggi nel tempo. Si compra un impermeabile bianco come quello di Julie Christie in Darling, si fa anche lei i capelli a la Bardot e comincia allegramente a vivere nel mondo de “la dissociazione miaaaaaa!”. I confini tra i due piani temporali diventano sempre più sfuocati e la nostalgia per quel tempo andato rischia di prendere il sopravvento. Solo che forse non è tutto swinging quel che swinga.

Si capisce dallo sguardo che Edgar è preso male.

Più Ellie entra in quel mondo fatato, più scopre che si è sempre illusa, che quello che lei ha sempre sognato è una sua idealizzazione. Ti fa schifo il 2021? Bè, guarda, il 1965 non era molto meglio. Era pronto anche lui a prendere i tuoi sogni e spezzarli. Era pronto anche lui a sfruttare la tua ingenuità per portarti a letto per poi trasformarti in una ragazza squillo. In questo senso Last Night in Soho nega quello che abbiamo spiegato all’inizio: la nostalgia qui non ha nessun potere salvifico, anzi. Tutto rimane solo ed unicamente in superficie: i vestiti e la musica, bellissimi e curati con un’attenzione filologica rara, servono solo ad indorare la pillola, a nascondere un mondo da incubo. A differenza del cliché nostrano, ovviamente presente anche in tanto cinema in giro per il mondo, non c’è salvezza nel rifiuto della modernità, nel trovare asilo nei good ol’days, anzi.

TRUE LONDONER BLACK SWING

Edgar Wright, insieme alla sceneggiatrice di 1917 Krysty Wilson-Cairns, ha scritto un horror (una ghost story psicologica) dal taglio molto moderno, che parla di rapporti di potere, di uomini che sfruttano le donne e di donne incapaci di vedere o ascoltare chi ha realmente a cuore la loro vita (I’m talking to you, Terence Stamp). Parla del passato che ritorna, della ciclicità del tempo e dell’ineffabilità delle colpe. E lo fa con il più grande omaggio al cinema di Mario Bava che si sia visto ultimamente. Un’occhiata anche distratta al trailer è più sufficiente per rendersene conto e i vari poster omaggio che stanno spuntando come funghi in questi giorni rendono ancora meglio l’idea. L’uso dei colori, l’ossessione per il corpo femminile (cosa per altro inedita nel cinema di Wright, passato alla storia per una trilogia come quella del cornetto, alfiera della bromance), la casa/antro di Diana Rigg, sono tutti riferimenti al cinema di Bava. Così come tutta la parte che sembra interessare di più a Wright, cioè la messa in scena della parte “onirica” del film: il continuo rimando di specchi tra Ellie e Sandy. Ce ne sono almeno 127. E sono tutti bellissimi, stupendi. Ma…

Transizione figa numero 126

Ma alla fine un po’ chi se ne frega, no? Cioè, Last Night in Soho è esteticamente di una bellezza sconvolgente, quando ingrana e comincia a viaggiare tra i due piani temporali è estremamente affascinanate, ma… personalmente l’ho trovato il film meno riuscito e personale di Wright. Potrebbe essere che abbandonata la “simpatia” dei progetti precedenti (sì, certo, The World’s End e Babby Driver hanno dei sottotesti pochissimi “simpatici”, ma una forma che si appoggia su quei canoni), Wright si sia trovato un po’ spaesato in questo mondo così serioso e distante dalle sue corde. Ma forse questo è un peccato negli occhi di chi guarda, cioè potrebbe semplicemente essere un problema di mie aspettative (non riesco a non pensare alla differenza tra il viaggio di Simon Pegg in Hot Fuzz da Londra a Sanford e quello di Ellie dalla campagna a Londra). No, mi sembra che i problemi principali siano due: la seconda parte del film, nella sua ansia di dire qualcosa di importante, è decisamente più sfilacciata e confusa della prima. In più si nota una mancanza di controllo totale da parte di Wright. Last Night in Soho non è un suo one man show. Mancano quelle invenzioni visive a cui ci aveva abituato, manca quella sua innata capacità di reinventare il montaggio, di usare la musica, di giocare non solo coi generi – cosa che fa meglio di chiunque altro – ma proprio col linguaggio.

Coolness a seimila

Ultima nota sulla colonna sonora. Anche questa volta ci sono praticamente solo bombe, compresa una versiona a cappella di Downtown cantata da Anya da pelle d’oca e la versione originale di I Got My Mind Set On You che ho sempre pensato essere di George Harrison, ma mi sembra manchi un po’ di struttura, di collegamento con la storia. Uniche eccezioni i violini quasi hermaniani all’inizio di You Are My World di Cilla Black e la canzone che abbiamo usato come sigla, dal didascalico titolo There’s a Ghost in My House.

 

DVD-quote:

“Vorrei mi fosse piaciuto di più”
Casanova Wong Kar-Wai, i400calci.com

IMDb |Trailer

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